UN PROGETTO DI ALFREDO ACCATINO

Viaggio non scontato tra artisti e visionari da tutto il mondo, molto lontano dai soliti 50 nomi. Non esisterebbero le avanguardie senza maestri sconosciuti alla massa (ma certo non a musei e collezionisti). E non si sarebbe formata una cultura del contemporaneo senza l’apporto di pittori, scultori, fotografi, designer, scenografi, illustratori, progettisti, che in queste pagine vogliamo riproporre. Immagini e storie del '900 – spesso straordinarie - che rischiavamo di perdere o dimenticare.


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sabato 24 marzo 2018

L'INFERNO DI ESSERE FIGLI - Pegeen Vail Guggenheim

Quando tua madre è Peggy Guggenheim, il tuo patrigno è Max Ernst, vedi Pollock pisciare nel caminetto, sposi Jean Helion, e passi la vita nella depressione, inspiegabile per gli altri, visto che è bella, miliardaria, non puoi che dipingere così. Dipinti quasi infantili, che forse rivelano la voglia di dipingere al di là del talento, che sembrano allegri, ma che in realtà sono cupi e disperati. Scorre tutta la sua vita, la madre, i suoi amanti, i mariti di Pegeen,  figli. Un percorso nella propria vita che si bagna di surrealismo, ma che in realtà è fortemente psicoanalitica. Temi che appaiono una ricerca, da parte di Pegeen Vail Guggenheim, di una vita familiare stabile.
Raymond Queneau scrisse questa introduzione: «Il mondo che Pegeen crea è in un certo senso più autentico del mondo reale, perché sembra più vicino al paradiso terrestre. Nessuna consapevolezza macchia i colori o pesa sulle figure. Dopo la cacciata, Adamo con il suo cuore puro tracciò una rappresentazione perfetta di un bisonte vendicativo sulle pareti nascoste di una caverna. Cosa stava facendo Eva? Probabilmente ascoltando le urla che la davano peccatrice. Ma qui, come dice Prévert: 'Dio è stato cacciato dal paradiso terrestre' ed è 'la nuova stagione'. 'Un terreno fertile – una luna bambina – un mare ospitale – un sole sorridente – al limite delle acque – ragazze che incarnano lo spirito del tempo.' Pegeen Hélion appartiene a questa razza di 'bambini d'ambrosia'


Pegeen Vail Guggenheim nata in Svizzera, nel 1925 – morirà a Parigi nel 1967 a 42 anni per overdose di farmaci antidepressivi. Era l’unica figlia della famosa collezionista d'arte Peggy Guggenheim e dello scrittore Laurence Vail e nipote di Benjamin Guggenheim, che era morto a bordo del Titanic nel 1912.
Pegeen trascorse l'infanzia tra Francia e Inghilterra e nel 1941 si reca negli Stati Uniti insieme alla madre Peggy Guggenheim e Max Ernst, che sarebbe poi diventato suo patrigno dal 1941 al 1946. In America, studiò presso il prestigioso Finch College, incontra il pittore francese astratto Jean Hélion che sposerà a New York nel 1946. La coppia si trasferì a Parigi dove ebbero tre figli. Quando la coppia divorziò nel 1956, Pegeen lasciò Parigi con il figlio più piccolo, Nicolas, andando a vivere con la madre a Venezia.
Nel 1957, Pegeen incontrò il pittore inglese Ralph Rumney, uno dei fondatori, insieme a Guy Debord e Piero Simondo, dell'Internazionale Situazionista.P egeen sposò Ralph Rumney nel 1958 e diede alla luce il suo quarto figlio, Sandro, nello stesso anno. Nel 1959, la coppia si spostò a Parigi, dove visse sino alla morte.
Peggy Guggenheim fu informata della morte di sua figlia Pegeen da un telegramma durante un viaggio in Messico. Nella sua autobiografia, Peggy Guggenheim scrisse: "(questo era in Messico) venni informato della terribile notizia della morte di mia figlia, la mia cara Pegeen che era per me una madre, un'amica e una sorella…”



Come artista fu totalmente dimenticata, e recentemente i suoi figli hanno organizzato una mostra presso la Fondazione Guggenhein di Venezia, dove aveva vissuto.
Aveva conosciuto e frequentato tutti i più grandi artisti del proprio tempo e i suoi dipinti combinano due diversi tipi di pittura: quella surrealista e quella naif. Pegeen fu ispirata nei suoi lavori dagli artisti surrealisti che l'avevano circondata durante l'infanzia, inclusi Yves Tanguy, con cui scambiò alcuni dipinti, e Max Ernst.  




PEGGY

BAMBINA MALATA. IL QUADRO DISPERATO.

E’ seduta, meglio dire adagiata, su una poltrona di legno imbottita per la lunga degenza. Ha in mano una rosa, le cui foglie si sfogliano in una facile allegoria. In realtà potrebbe essere lei stessa che giocandoci, per ingannare il tempo, ha finito per distruggerla. La sua pelle è bianca, livida, con rifrazioni simili a quelle del lenzuolo.
Gli occhi sono una domanda che non aspetta risposta.

 

Christian Krohg, Bambina malata (1880-81), opera di un pittore e scrittore che divenne il leader dei bohémien norvegesi. E’ un quadro che ebbe un enorme influenza su Edvard Munch. “I miei quadri sono i miei diari», scriverà. “E i numerosi autoritratti, come una produzione laterale al “fregio” che coincide con l’intero arco della sua vita d’artista, ne costituiscono le scansioni, registrando gli stati emotivi in un continuo, inesausto esame di coscienza” (Di Stefano)
E’ il quadro decisivo, come suggerisce egli stesso, la matrice di quasi tutto ciò che svilupperà in seguito. Eva Di Stefano arriva ad ipotizzare che questo quadro sia la ragione stessa della pittura di Munch. «Forse Munch è diventato pittore solo per riuscire a dipingere l’agonia della sorella Sophie morta di tubercolosi a quindici anni, a cui ha assistito da ragazzo e che non può dimenticare.»
Aveva infatti appena cinque anni quando la madre muore di tubercolosi e ne aveva quattordici quando anche la sorella Sophie, quindicenne, muore per la stessa malattia. Un destino comune al 40% sino a 45% dei bambini sino ai 5 anni nei primi 15 anni del 900.

Christian Krohg, Bambina malata (1880-81)  
«Quando vidi la bambina malata  per la prima volta  – la testa pallida con i vividi capelli rossi contro il bianco cuscino – ebbi un’impressione che scomparve quando mi misi al lavoro. Ho ridipinto questo quadro molte volte durante l’anno – l’ho raschiato, l’ho diluito con la trementina – ho cercato parecchie volte di ritrovare la prima impressione – la pelle trasparente, pallida contro la tela – la bocca tremante – le mani tremanti. Avevo curato troppo la sedia e il bicchiere, ciò distraeva dalla testa. Guardando superficialmente il quadro vedevo soltanto il bicchiere e attorno. Dovevo levare tutto ? No, serviva ad accentuare e dare profondità alla testa. Ho raschiato attorno a metà, ma ho lasciato della materia. Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla mia impressione. Le ho suggerite come delle ombre sul dipinto. In qualche modo la testa diventava il dipinto.  Apparivano sottili linee orizzontali – periferie – con la testa al centro […] Finalmente smisi, sfinito – avevo raggiunto la prima impressione.» (Munch)


 La fanciulla malata, anche noto come Bambina malata (Det syke barn) è il nome dato a una serie di dipinti a olio su tela (85,5x121 cm) realizzati dal pittore norvegese Edvard Munch tra il 1885 e il 1927




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sabato 17 marzo 2018

Carlo Barbieri. 100 lire e una piscina per morire.

In tutta la sua vita Carlo Barbieri, pittore pugliese, ha venduto una sola opera, a 100 lire, ed è morto proprio a causa di questo. Giovanissimo, ha vissuto come ha potuto, facendo il decoratore e l’illlustratore per sbarcare il lunario.
E’ in questa veste che mentre si trova a Roma presso il Foro Mussolini muore affogato a 27 anni per aver battuto il capo sul fondo della piscina del Foro Italico (all'epoca Stadio Mussolini), dove ora si disputano i campionati del mondo, ma che una volta veniva usato anche dalla povera gente. Stava festeggiando la vendita del suo primo quadro, compiendo un tuffo esagerato, classico di quelli che non conoscono bene le piscine,
La rivista "il Selvaggio" gli dedicò un numero intero della rivista, grazie Mino Maccari.


Carlo Barbieri nac­que a San Cesario di Lecce il 23 otto­bre 1910. Insieme ai fratelli Fran­cesco e Ugo, Carlo trascorse la sua giovinezza a Lecce, quando il padre fu assunto come impiegato al dazio. In questo periodo frequentò, in­sieme al fratello Francesco, il laboratorio di arte applicata di Ariosto Ammassari, da poco costituito a Lecce. Dopo aver frequentato le scuole locali ed aver appreso dalla madre i primi elementi di disegno, nel 1922 Carlo, incoraggiato da Geremia Re (1894-1950), si trasferì a Roma.
Nonostante l’ambizione di seguire i corsi di pittura presso l’Accademia, Barbieri preferì dipingere e disegnare fuori dall’ambito accademico. Il suo interesse per le arti seguì anche dei percorsi letterari, soprattutto legati alla poesia, con ottimi riscontri; una serie di suoi componimen­ti sono pubblicati dal poeta Francesco Negro e da Ennio Flaiano. In un periodo di grandi ristret­tezze economiche, Carlo si dedicò ad un’intensa attivi­tà ritrattistica, realizzando numerosi lavori, tra i quali il Ritratto del fratello Ugo al pianoforte (1936) ed il Ritratto di Francesco Negro (1937).
Nel suo studio di via Margutta, Barbieri realizzò centinaia di disegni, dipinti, bozzetti per manifesti, copertine di libri, ritratti e numerose vedute romane. Tra il 1937 e il 1938 Carlo si allontanò dai temi della Scuola Romana, prediligendo un filone di ricerca di respiro internazionale, realizzando composizioni di saltimban­chi, veneri, pagliacci, caval­li, suonatori, nelle quali si comprende la conoscenza della pittura di James Ensor e Pablo Picasso.

Morì a Roma nel 1938 all'età di 28 anni.

 

lunedì 12 marzo 2018

BONE MUSIC. GENI.


 

Nella Russia sovietica staliniana, in piena guerra fredda anni '50, gli appassionati desideravano ascoltare la musica popolare occidentale, dal jazz al rock & roll. Ma il contrabbando di vinile era pericoloso, e acquisire il materiale per realizzare le copie di quei dischi era troppo costoso. Provarono anche con la carta patinata, ma il risultato era deludente.
Serviva il genio, quello di un ingegnere di San Pietroburgo: Ruslan Bogoslowski. L’idea era semplice, fare incetta negli archivi degli ospedali e nei bidoni della spazzatura dei centri diagnostici, e usare le lastre per incidere i dischi.

Nasce la Bone Music, la musica delle ossa, capolavoro anche di design, relizzati ritagliando con le forbici, poi bruciati al centro con una sigaretta.

Venditori ambulanti li vendevano per strada, la "musica d'ossa" nascosta all'interno dei loro trench. Il governo per dissuadere dall’uso arrivò anche a fare dei falsi fallati per far morire il fenomeno.
Bogoslowskij venne arrestato tre volte, nel 1951, nel 1957, e nel 1961. Gli anni di carcere, tre per ogni condanna, non lo quietavano e scontate le pene ritornava sempre alla propria produzione clandestina. Nel 1958 la censura decise di agire drasticamente e dichiarò espressamente illegali i roentgenizdat.
Io, a lui, mi inchino.

 


 





Interessante anche la storia dei samizdat.
In URSS, per contrastare la censura del regime, si diffonde il fenomeno dei самиздат, i samizdat, le auto-produzioni. Romanzi, poesie, ma anche saggi, articoli e svariati documenti altrimenti segreti. Amanuensi del ventesimo secolo, gli autori di samizdat copiavano pazientemente con macchina da scrivere e molteplici fogli di carta carbone le opere che volevano diffondere presso i loro contatti. Così il pubblico si allargava poco alla volta, attraverso conoscenze personali e l’impegno di ogni anello della catena a diffondere quella cultura, quelle idee, quelle opere d’arte. La circolazione dei samizdat era piú vasta di quanto oggi si potrebbe immaginare, e da una prima pubblicazione attraverso il passaggio di mano in mano e un lavoro di copia incessante, si arrivava spesso a coprire un pubblico superiore ai 20.000 lettori.



giovedì 8 marzo 2018

NATHALIE KRAEMER, DEPORTATA


Nathalie Kraemer, Parigi 1891 - Auschwitz 1943.
Nata da una famiglia ebrea polacca a Parigi, dove i suoi genitori erano venuti a rifugiarsi per sfuggire a casi di intolleranza si interessa sin da ragazza alle arti visive e alla poesia, tanto da vincere  1926, Nathalie un premio letterario e pubblicò un libro (ora non rintracciabile) intitolato Rising Voices. Inizia anche a dipingere e partecipa a numerose mostre al Salon des Tuileries e al Salon des Independants, soprattutto ndl biennio 1936 - 1938.

 

Durante la guerra, Nathalie Kraemer si nasconde ma continua a dipingere. Nel 1943 viene arrestata e deportata ad Auschwitz. Un certo numero di dipinti sono stati salvati da un collezionista, Granziani. Oggi i suoi dipinti sono conservati in Israele, all'Università di Haifa (donazione Oscar Ghez) e al Museo Petit Palais di Ginevra.

 
 



lunedì 5 marzo 2018

ISAMU NOGUCHI. L'ESPLOSIONE CREATIVA AMERICANA E GIAPPONESE.

“L’essenza della scultura per me è la percezione dello spazio, il continuum della nostra esistenza”
Isamu Noguchi


Isamu Noguchi, nato nel 1904 a Los Angeles dal poeta giapponese Yone Noguchi e dallo scrittrice americana Leonie Gilmour, ha studiato alla Columbia University e alla Scuola d'arte Leonardo da Vinci. I genitori si separano, poi vanno a vivere entrambi a Tokio, dove lui però si risposa e lei se ne ritorna negli Stati Uniti.
Questo rapporto oriente e occidente, anche linguistico, caratterizzerà tutta la l’opera di Isamu: "Mio padre Yone Noguchi è giapponese ed è stato a lungo conosciuto come interprete dell'Oriente e dell'Occidente, attraverso la poesia. Io vorrei fare la stessa cosa con la scultura” questo è quello che scrive nel 1927 nella sua proposta per una borsa di studio Guggenheim, che viene accettata. Perfino le sue ceneri sono sepolte metà a nella sua casa a Mure, sull’isola di Shikoku, metà in un angolo dell’Isamu Noguchi Garden Museum, di New York. Quando si diploma alle scuole superiori in Indiana, usa il nome di Sam Gilmour, e solo dal 1924 adotta il nome Isamu Noguchi.
Noguchi diventa assistente di Constantin Brancusi a Parigi, esperienza che influenzerà fortemente la sua arte (anche se non parleranno mai, perché Costantin non conosce l’inglese, e lui in francese). Anche con questa influenza presenta la sua prima mostra personale a New York. Dopo aver studiato disegno a pennello in Cina, si recato anche in Giappone per lavorare con l'argilla sotto il maestro vasaio Jinmatsu Uno.


 
E' un tornado, che spazierà in tutte le forme espressive, nel design, cambiando mille volte pelle. Le sue esperienze di vita e di lavoro in diversi ambienti culturali si riflettono nel lavoro di Isamu Noguchi come artista. È considerato un talento universale con un'opera creativa che va oltre la scultura per includere scenografie, mobili, illuminazione, interni, piazze e giardini all'aperto. Il suo stile scultoreo è in debito con un vocabolario di forme organiche e ha esercitato una forte influenza sul design degli anni '50.
Isamu Noguchi è morto a New York nel 1988.

A Long Island gli è stato dedicato un museo. 

 
  
 


 

Yone Noguchi (1875-1947), was the first Japanese national to publish poetry

CATTIVE RAGAZZE. DEIVA DE ANGELIS, DA MODELLA A PITTRICE, FINITA IN UNA FOSSA DI PUBBLICA PIETA'.

Questo breve articolo non sarebbe mai esistito se non avessi casualmente scorso un “pezzo” scritto su un sito di toponomastica per contestualizzare il nome dato a una strada. Una breve bio, intensa e appassionata, scritta da un editor anonimo, di quelli che amano il proprio lavoro, che approcciava il tema con uno stile degno di Flaubert, che vorrei citare, doverosamente in corsivo:
Una vita piena di misteri quella di Deiva Terradura. Di lei non ci sono notizie anagrafiche certe. Nulla nei registri delle nascite né in quelli dei battesimi; nulla di certo neanche sul giorno della morte, né una tomba che ricordi il suo nome. Del resto Il cognome Terradura, ereditato dalla madre, sembra riassumere tutte le difficoltà di una vita fatta di fatica e sacrifici…”.
Autoritratto con sigaretta. 1921
Nata in una famiglia povera, probabilmente a Farneto, un borgo non lontano da Perugia, o a Piccione, vicino Gubbio, Deiva Terradura (si scoprirà poi anche il secondo cognome, Riposati) nacque intorno al 1885 e la mancanza di un atto di registrazione fa presumere che sia figlia di una ragazza madre.
Cresce in maniera semplice e forastica, ma ribelle e curiosa, sin da giovanissima, lascia l’Umbria per venire a Roma. Ma non vuole fare la servetta, come fanno le sue coetanee, preferisce vendere violette a Piazza di Spagna.
Molto bella, dal “sorriso seduttivo” secondo le testimonianze del tempo, anche se le poche foto esistenti ne esaltano invece i lineamenti duri, viene ben presto richiesta come modella dai pittori della vicina Via Margutta.
E’ così che conosce l'acquarellista e architetto liberty inglese William Walcot (nato però a Odessa in Russia nel 1871) giunto a Roma come docente del British Institute. Lei ha 18 anni, lui 32. Scoppia l’amore.
Va a vivere con lui e con lui inizia con lui a viaggiare e a soggiornare a Londra e a Parigi, dove entra per la prima volta in un museo, e dove vede le grandi opere dell’arte contemporanea.  Si compie, di fatto, di colpo, la sua istruzione e si avvia alla pittura, colpita dalla trasgressione e dalla libertà dei fauves, le belve, dall’espressionismo di Van Gogh e dalle cromie di Gauguin.
Anton Giulio Bragaglia ricorda, in un articolo del 1925, la scoperta delle sue doti artistiche: “Walcot, che viveva a Roma, si attardava un giorno in pose su pose, non riuscendo a finire un suo quadro, il cui soggetto era proprio Deiva con una sua compagna modella. Difficile da ritrarre era quell’amica! Ma il pittore uscì per un momento e Deiva preso il carbone terminò la figura della compagna. Quando Walcot, tornando, vide, restò come trasognato. Da quel giorno Deiva fu pittrice.”


William Walcot

Quando la loro storia finisce Deiva torna a Roma.
Passo pochi mesi, e non si sa come, conosce e poi sposa l'avvocato pugliese De Angelis, del quale non si è saputo altro che poche riferimenti professionali, dal quale si separerà molto presto, forse per la morte di lui come a qualcuno pare di ricordare. Lei, però, non rinuncerà mai a quel cognome, che diventerà da allora la sua firma, Deiva de Angelis. Forse anche solo per mantenere l’unica cosa certa della propria vita.
A Roma, dove era stata modella, si presenta questa volta come pittrice e nel 1913 inizia a frequentare l'ambiente artistico più avanzato della capitale. sino a incontrare Cipriano Efisio Oppo, pittore, disegnatore, illustratore satirico, organizzatore di eventi artistici (sarà proprio lui a inventarsi la Quadriennale). Nonostante la giovane età è già affermato e in contatto con gli artisti secessionisti residenti nella villa Strohl-Fem, dove egli stesso ha lo studio, e dove lei andrà a vivere con lui in una piccola casetta di legno rimasta ancora oggi unica superstite delle casette per artisti.
E’ il momento d’oro per quel luogo magico affacciato su Villa Borghese, voluto da un ricco mecenate, che vedrà nascere la Scuola Romana, e dove operano Alberto Ziveri, Armando Spadini, Francesco Trombadori, Carlo Socrate e dove lei si lega di amicizia a Pasquarosa. Una ragazza di campagna come lei, trasformatasi anche lei da a pittrice di grande qualità dopo essersi legata al pittore Nino Bertoletti.

Tra il marzo e il giugno di quell’anno, si tiene la prima Esposizione Internazionale d’arte della “Secessione” al Palazzo delle Esposizioni con la volontà di mostrare, anche se in ritardo le nuove istanze dell’arte contemporanea europea. Alla mostra furono esposte opere di avanguardia di Matisse, Van Dongen, Manet, Monet, Renoir, meno recenti ma comunque significative per lo scenario italiano. La vetrina era importante e Deiva presenta il dipinto Studio d’uomo, entrando nel “salotto buono” dell’arte nazionale. Da quel momento partecipa a tutte le altre manifestazioni della Secessione, fino all’ultima edizione, quella del 1916.
Deiva continuò a consolidare la sua ricerca cromatica, affine a “Lo Spirituale nell'Arte”, famoso e decisivo libro teorico di Kandinsky che analizza le pulsioni etiche dell’atto creativo: “…una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull'arte, che sembra così facile” scrive Kaninsky “In ogni Centro Artistico vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d'arte col cuore freddo e l'anima addormentata…”



Cipriano Efiso Oppo in un autoritratto del 1925


La carriera di Deiva De Angelis proseguì con successi e mostre significative: le Biennali romane del ’21, del ‘23 e del ’25, altre collettive nella Casa d’Arte di Bragaglia che gli fu sempre vicino, l’Exposition Internationale d’Art Moderne a Ginevra, 1920-1921. Dipinti, come ha scritto Vivaldi, che testimoniano di una "personalità d'eccezione assolutamente in anticipo sulla cultura romana e italiana dell'epoca, caratterizzata da un espressionismo stralunato, elettrico nel colore come nel segno guizzante." 
Nel 1918 o poco prima lascia Oppo. Alcune lettere di amici comuni fanno riferimento a una gravidanza non voluta (da lui) che nel pieno della sua affermazione professionale non vuole ostacoli. Una scelta che, probabilmente, la ferirà profondamente.
Come sempre i dubbi vincono sulle certezze.
Sappiamo però che non molto tempo dopo si legherà al pittore e cartellonista Giuseppe (Bepi) Fabiano, che sposerà poco prima di morire, e del cui rapporto si sa comunque ben poco e inizia a sprofondare in una dipendenza alcolica, dalla quale forse dipenderà l’aggravarsi del suo stato di salute.

ldo Di Lea pubblicò sul numero di gennaio del 1921 di Cronache d'attualità un articolo monografico con la riproduzione dell'Autoritratto con sigaretta, il dipinto forse più famoso, tra i pochi noti, per la provocazione e irritualità.
Deiva amava infatti andare in giro con abiti maschili, cogliendo la moda e la irritualità che la moda androgina aveva portato in quegli anni in Europa, ma che a Roma, non era facile vedere. Il critico, riportando che la pittrice aveva lo studio a via Angelo Brunetti al 35, vicino a Piazza del Popolo, dà di lei una descrizione molto colorita: "...nella persona e nei modi, nei pensieri e nel movimento vivido delle frasi ho ritrovato la pittrice con le sue esuberanze e le sue audacie... in questa artista che ha l'aria d'essere l'antesignana di chissà quale bolscevismo pittorico devastatore e sovvertitore, la pioniera d'un avanguardismo erostratico negatore d'ogni e qualsiasi canone d'arte antica e accettata, e bestemmiatore d'ogni catechismo pittorico, c'è invece un religioso quasi feticistico amore per la linea pura del disegno per la salda compagine del dipinto". E dei suoi nudi dice: "...sotto quella dovizia di colori, sotto quella ostentazione di s'enfichisme per tutto ciò che potrebbe parere savia norma tradizionalistica, ... una salda impostazione preparativa, il lucido proposito d'una coscienza matura e perspicace che sa distribuire con accorgimento le luminescenze del colore...".

Ed ecco che le fasi finali di un decadimento fisico e mentale che recupero ancora una volta dal sito di toponomastica: “La solitudine la accompagnò per molti tratti della vita, nonostante lo scambio artistico e culturale con numerose persone e gli amori vissuti. Essere pittrice comportava rinunce, prevedeva ostacoli, determinava una celebrità effimera raggiunta attraverso percorsi tortuosi. Il suo destino, difficile fin dalla nascita, continuò ad accompagnarla e la aggredì con una malattia che non lasciò scampo: un tumore, forse all’intestino, che la fece soffrire molto e che la divorò in breve tempo. Deiva fu costretta a vendere – o meglio svendere – i suoi quadri per comprare le medicine che, se non riuscirono a combattere il cancro, le diedero un po’ di tregua dal dolore”.
Si tratta di opere realizzate su materiali di fortuna, cartoni, tavolette di recupero, figlie della sua complicata situazione economiche, molte delle quali probabilmente attribuite nel tempo ad altri artisti. Quasi sempre fiori, nell’ultimo periodo, quasi a voler chiudere il cerchio e la parabola di quella ragazza che, una volta, vendeva le violette a Piazza di Spagna.
Morì, secondo le fonti e le scoperte più aggiornate, il 24 febbraio del 1925, poco tempo dopo aver esposto alla Terza Biennale Romana – Mostra Internazionale di Belle Arti. Aveva circa 39 anni.
Anche per la morte non esistono documenti certi. Fu tumulata in un loculo pagato dallo Stato del quale si è persa ogni traccia.
Di lei sono rimaste poche opere, un paio delle quali di proprietà del grande storico dell’arte Roberto Longhi, che le fu amico e che le fu vicino quando morì la madre della donna, che Deiva aveva fatto venire dalla campagna e che, spaventata dai rumori della città, non metteva il naso fuori di casa.



 
Grazie alle ricerche di Lucia Fusco che per realizzare la sua tesi di storia dell’arte ha tolto l’oblio sul suo nome e che poi ha sempre approfondito la sua ricerca con nuovi dettagli e scoperte è stato prodotto il documentario “Deiva”, realizzato dal giornalista Gianluca Sannipoli con la collaborazione di Cesare Coppari. E forse, magari grazie a qualche lettore, come i tasselli di un mosaico, ne sapremo di più e recupereremo opere smarrite come messaggi nella bottiglia.